L’utopia del tono

Una recensione di Ipotesi di felicità di Alberto Pellegatta

Il tempo della poesia è vario: in essa non esiste un solo ritmo canonico, ma vi sono tante espressioni, tanti tempi. Ognuno ha il suo modo di fare versi ed è in questa particolarità – anche impercettibile – che vige la distinzione tra chi scrive per necessità e chi lo fa per vezzo o per narcisismo. L’entusiasmo da ultimo è necessità assoluta di chi fa poesia. Questi credo siano dei presupposti parziali, ma comunque importanti per costruire una lettura coscienziosa di un’opera poetica.

Alberto Pellegatta col suo ultimo volume, Ipotesi di felicità, pubblicato da Mondadori (Milano, 2017), risponde a queste fondamenta. Questa sua opera si inserisce nel contesto della nuova veste data alla collana “Lo Specchio”, che ricorda nell’impaginazione i bellissimi volumi rilegati di poesia della Garzanti. Un quadro-contesto perfetto: da una parte l’estetica di una carta che si sparge sulle dita con la sua grana spessa, dall’altra l’impaginato con l’inizio a fondo pagina, dall’altra ancora (e soprattutto) i testi; testi tesi alla costruzione di un margine. La poesia di Pellegatta ha un linguaggio atono, secco e ricercato insieme. Ha un che di poesia sapienziale-ghnomica, condizionata da un’ironia e una disillusione evidenti («Serviamo solo / a consumare ossigeno in eccesso.», p. 34; «Chiunque conosca le frequenze umane sa che / l’acqua ritorna alla costa e che ogni tanto / una sedia non è altro che una sedia», p. 68): la sapienza consiste in uno sguardo sul mondo disilluso e pratico soprattutto dell’assenza, dell’invidia per il mondo che sembra così impassibile alla sua vacuità; una sapienzialità quasi oracolare a tratti, con versi che hanno l’andamento di indovinelli.Alberto Pellegatta, Ipotesi di felicità

Per capire qual è la finalità poetica di Pellegatta vi consiglio di leggere La moltiplicazione dei comignoli, o dove accompagnare il lettore, nei cui due versi conclusivi emerge una ghnome significativa per capire il senso di quest’opera:

Togliti la giacca per entrare in questa poesia
siamo qui per l’italiano e avremo aerei sufficienti (p. 68).

In questi due versi, semplici, netti, precisi, emerge come l’unico mezzo per comprendere la poesia sia la lettura, senza il bisogno compulsivo di spiegare e simbolizzare ogni piccolo particolare. Il punto più alto di questa raccolta è “Zoologiche”, una sezione di poemetti in prosa, in cui emerge il nucleo di questa raccolta: il cambiamento, la metamorfosi. Una metamorfosi epigenetica però. In questa sezione pare evidente il riferimento al Bestiario di Tozzi, una raccolta formidabile di poemetti in prosa in cui gli animali sono usati a simbolo di qualcosa, sono l’epicentro, il punto centrifugo di una sensazione che va dispiegandosi e si realizza nella bestia, che dà quel tocco di particolare al contesto di vita di chi fa poesia. Qui però gli animali non sono coronamento di un’azione, ma zoologizzazione di esseri umani: è una commistione di specie differenti che si compenetrano a vicenda e apprendono con la loro essenza di bestie-istinto una forma di umanità maggiore, un’ipotesi di felicità insomma, come se gli animali metilizzassero il genoma umano e lo rendessero più primitivo, in definitiva più vicino alla verità.

Pellegatta ci mostra come nell’umanità e nel suo accentramento culturale – un accentramento forzato nella misura in cui l’uomo può comunicare culturalmente solo con altri uomini in maniera, per così dire, proficua – ci sia un che di istinto da tenere sempre da conto, un istinto che è anche poesia, rappresentata come un calamaro innestato nel teschio, che coi suoi tentacoli modula e rimodula le sinapsi, dettando al contempo il tempo giusto per una poesia che non ha più bisogno di metro. Da ultimo in questa raccolta si vede una catena di assonanze con un’eredità poetica importante. Alcune delle poesie, in apparenza haiku, in realtà sono più vicine a Celan e alla sua poesia tanto misterica quanto commovente. Una commozione senza perché che si osserva e subisce sia in Celan, sia in Pellegatta: una suggestione che sospende il lettore tra la pagina e il pensiero che si fa immagine e proprio in essa, nella raffigurazione ideale, si sospende la ragione, che si sfoglia gradatamente in emozione, sradicando via via quelle sovrapposizioni di ragioni su cui l’uomo ha posto le basi della sua evoluzione. Con Ipotesi di felicità siamo guidati dall’autore in una scrittura che parla a quello che non si può, non si riesce, non si deve dire, se non in versi, sia chiaro.

È una poesia mutaforica, insomma, ossia una poesia che porta mutazione, che intende plasmare il lettore verso una diversa concezione di felicità, una concezione più radicale, viva e vera. Un’utopia del tono nella misura in cui in Pellegatta il tono è tendenzialmente distonico. E in questo non (ou) luogo (topia) tonale si sviluppa e avviluppa il piacere di leggere un’opera tesa verso un qualcosa che aleggia vago negli spazi dell’inconscio.

di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).

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